Ve lo ricordate anche voi quello sketch satirico – con Corrado Guzzanti, Neri Marcoré e gli altri comici delle trasmissioni di Serena Dandini – che prendeva in giro la Casa delle Libertà? Per chi non lo sapesse o non se lo ricordasse (e in effetti è ormai passata un’era da quei tempi), la Casa delle Libertà era la coalizione elettorale di Berlusconi, che durò dal 2000 al 2008. Riuniva Forza Italia, Alleanza Nazionale, la Lega (e questi ce li ricordiamo tutti, più o meno) e partitini minori come UDC-CCD-CDU (i frammenti della defunta DC), il Nuovo PSI, la Democrazia Cristiana per le Autonomie (grazie Wikipedia).
Lo sketch in questione colpiva nel segno. In una delle sue versioni, per esempio, una tavolata di gente cenava insieme; all’improvviso, Guzzanti si metteva a ruttare rumorosamente e – di fronte alla reazione stupita del telespettatore (queste cose non si fanno!) – si giustificava dicendo che nella Casa delle Libertà “facciamo un po’ quel cazzo che ci pare”. In un’altra versione, la frase era usata dallo stesso Guzzanti per giustificare il fatto che dal nulla, seduto in salotto, si mettesse a fare pipì sui cuscini del divano.
Lo sketch colpiva nel segno perché effettivamente quella coalizione elettorale raggruppava partiti che teoricamente non avrebbero mai potuto essere alleati (cosa c’azzeccano mai i principi del Partito Repubblicano di mazziniana memoria con quelli conservatori e post-fascisti con cui Alleanza Nazionale cercava di rendersi più presentabile rispetto al MSI da cui era derivata solo pochi anni prima? Ma queste, lo so, sono discussioni da preistoria della politica). Li teneva insieme la speranza di vincere grazie all’accordo con Berlusconi. Il quale iniziava con quella coalizione la sua martellante retorica della libertà. Guzzanti non ci andava poi tanto lontano: usava, per prenderlo in giro, lo stesso principio su cui Berlusconi puntava, ovvero quello di una libertà individuale garantita come ideologia dominante. E infatti qualche anno dopo ecco spuntare non più la casa ma il Popolo della libertà, un partito ancora più finto di Forza Italia, nel quale l’idea di libertà non era più spartita tra gli inquilini di una casa ma diventava nientemeno che la caratteristica principale di un popolo.
Dopo sei anni di vita negli Stati Uniti, ho finalmente capito da dove Berlusconi derivasse la sua mania della libertà. Quello americano è infatti per definizione IL popolo della libertà. Ogni americano è sulla carta libero di fare qualsiasi cosa reputi necessaria per ottenere la felicità, uno dei diritti inalienabili sanciti nientemeno che dalla Dichiarazione di indipendenza. E per un europeo, e un italiano soprattutto, questo a prima vista è sbalorditivo. Essendo uno studioso di Pavese, ho studiato la sua attività di traduttore di libri americani. In essi, negli anni ’30, i giovani della sua generazione potevano ritrovare – anche se solo vivendola con le avventure dei personaggi – la libertà che il regime fascista negava agli italiani. Non era una questione politica? Forse solo a prima vista. Pavese, e poi con lui Vittorini e tanti altri intellettuali italiani, trovavano libri non artificiali, che raccontavano la vita di ogni giorno senza paura di sembrare inadatti ai loro lettori. Ma quei libri non erano – non potevano! – sembrare inadatti ai loro lettori: gli stessi lettori vivevano quel tipo di vita. La letteratura americana metteva al centro l’uomo comune perché è in quel prototipo di uomo comune che ogni americano si ritrova. Non importa che si tratti di un coltivatore di grano del Midwest o di un ricco banchiere di Wall Street, dell’erede di una fortuna milionaria o del classico “self-made man” arrivato al successo da origini oscure. Ogni americano si frigge uova e bacon a colazione, ama tracannare whiskey di grano e segale e sa che il proprio Paese è così grande che ognuno può arrivare alla cima del proprio personale successo. Era questa la libertà della letteratura americana: mostrare l’uomo senza vergogna, con la lingua di ogni giorno. Un sogno, per i romanzieri italiani, che ancora scrivevano con gli stilemi di una lingua che nessuno ha mai realmente parlato (la famosa differenza, ricordata da Pivano e Pavese, tra “il fanciullo raggiunse la dimora” e “il bambino andò a casa”).
Naturalmente, però, una cosa è osservare da lontano un Paese – soprattutto da un altro Paese, che toglieva la libertà perfino di respirare – e l’altro è vivere da dentro, conoscere quel Paese e scoprirne, insieme ai pregi, i difetti (che non sono altro che il rovescio della stessa medaglia). La libertà, infatti, è bellissima; ma la libertà come la concepiscono gli europei è totalmente diversa da come la concepiscono gli americani. E ritorniamo a Berlusconi, che professava la libertà come valore di un partito di destra. Com’è possibile? Non siamo soliti associare la libertà (come ideale politico) ai partiti di sinistra? Non è forse la sinistra che si è sempre fatta carico (parlo al passato, lo so) di tutelare la libertà e i diritti di tutti, soprattutto di quelle persone che appartengono alle classi sociali meno privilegiate? Ecco, basta cambiare senso al concetto di libertà perché la proposta berlusconiana abbia un senso. Ogni cittadino deve essere libero di raggiungere i propri obiettivi (quasi esclusivamente professionali, ovvero da misurare con gli zeri del conto in banca) senza ostacoli da parte dello Stato. Eccola, la libertà “all’americana”. Si basa su un principio sacrosanto, ovvero il rispetto e la sacralità della vita di ogni singolo individuo; ma, in sostanza, ne protegge solamente l’aspetto economico. Dissolve il concetto di società come lo intendiamo noi europei: non una gerarchia ma un insieme di individui equivalenti (sulla carta, naturalmente).
Ho letto recentemente, su Doppiozero, il post di Alessandro Carrera intitolato “Covid e la fine del sogno americano” e ci ho ritrovato proprio questo: una critica all’individualismo e alla sacra libertà di ognuno, anche di fronte a un’emergenza spaventosa. I difetti non sono che il rovescio della medaglia dei pregi, scrivevo prima. Infatti, questa libertà tanto sbandierata e professata ha anche delle carenze gravi. Di fronte all’emergenza Covid, come ha reagito quella fetta di popolazione americana che vive negli Stati del grande centro e sud degli Stati Uniti, ovvero quella che è la “vera” America (non come le zone sulle due coste, imbastardite da uno stile di vita ancora troppo europeo e troppo poco americano)? Semplice, ha pensato che ognuno avesse il diritto di reagire al virus come voleva dal momento che ogni opinione deve essere rispettata in nome della libertà. Il prof. Fauci chiedeva di indossare le mascherine? E loro se ne sono fregati! Tutto il mondo reagiva sconcertato, con medici sull’orlo del baratro psicologico e intere famiglie spazzate via da un giorno all’altro? Non era un problema loro! E così avanti, di peggio in peggio. Il paradosso è che nemmeno davanti all’unica evidenza a prova di discussione, cioè la morte, cedono. Continuano, imperterriti e sicuri di avere ragione. Convinti che l’unica verità è già dentro a ognuno di noi e che ascoltare chi si professa superiore è un’eresia a priori. Non importa se la differenza di gerarchia nasce dalla competenza in un particolare campo: mai farsi mettere i piedi in testa!
Il problema, in questo caso, è enorme perché le conseguenze sanitarie le paghiamo tutti. Ma vivere negli Stati Uniti fa realizzare come in tanti altri settori e aspetti della vita la libertà tanto idolatrata non porti sempre questo enorme vantaggio. Praticamente ogni contea può emanare leggi, anche le più assurde, che non possono essere abrogate perché si reggono sul paradosso che abrogarle significherebbe limitare la libertà di qualcuno, e ciò significherebbe riconoscere a priori maggiore legittimità a qualcun altro. Creare gerarchie, come nella vecchia Europa dove bastava nascere in una famiglia piuttosto che un’altra per avere il destino segnato per generazioni. Ora, capisco che anche io nel mio piccolo sto beneficiando da anni del sistema. Conduco una ricerca che nel mio Paese sarebbe stata considerata al massimo con sufficienza (e infatti lo fu). Ho professori e colleghi che mi incitano a esprimere le mie opinioni e le rispettano. Nessuno mi giudica se i miei vestiti o il mio aspetto non corrispondono a ciò che è stato stabilito a priori come opportuno per una specifica occasione. Eppure, a volte è un po’ strano. È strano, in un qualsiasi discorso pubblico, che tutte le opinioni abbiano sempre lo stesso valore e peso. Che uno Stato (Indiana, 2015, governatore Mike Pence, attuale vicepresidente con Trump) abbia potuto promulgare una legge anti-gay facendola passare sotto il nome di “legge per la protezione della libertà religiosa”. Che nessuno faccia mai notare a nessun altro gli errori, per correggerli.
Concludo dicendo che non voglio, con questo mio post, passare per un trombone conservatore. Vorrei semmai ribadire quanto è importante la libertà individuale, soprattutto se non viene data per scontata e se ne vengono sottolineate le paradossali derive. Troverei più sensato ogni tanto sentire un “no!”, un “questo non sta né in cielo né in terra!”, un “questa è proprio una cazzata!”. Basta spiegare le motivazioni, naturalmente: altrimenti, questi no sono soltanto mortificazioni senza senso, che raggiungerebbero – questi sì per davvero – l’obiettivo di limitare la libertà altrui. Ma a quanto pare le sfumature non sono un concetto molto accettato, nella cultura iper-liberista di quelli che, alla fine, sono riusciti a far diventare la libertà un difetto anziché un pregio.
